La genesi del giornalismo
Il giornalismo italiano affonda le sue radici nel 1600, epoca in cui tutti gli stati italiani erano sottoposti a censura.
L’esercizio di stampa non era libero, tanto è vero che era il sovrano a scegliere quale tipografia potesse stampare un’opera.
Le prime città a voler aggirare questo limite furono Roma e Venezia, nelle quali iniziarono a circolare fogli avvisi anonimi.
Nella Serenissima, città che vantava la più grande produzione di fogli di notizie, questi erano venduti a 2 soldi e, dato che tale moneta veneta veniva chiamata gaxeta, questi avvisi presero il nome di quella che oggi noi chiamiamo comunemente gazzetta.
Fu verso la metà del XVII secolo che nacquero i veri e propri periodici, che però necessitavano comunque dell’autorizzazione delle autorità pubbliche.
Durante l’assolutismo i limiti alla libertà di stampa erano molto simili alle regole previste nelle altre nazioni europee, (fatta eccezione della Gran Bretagna):
Era vietata la trattazione di temi politici ed erano condannate le pubblicazioni di notizie che potessero compromettere le relazioni diplomatiche con gli altri stati.
Con la Rivoluzione francese il mondo della stampa in Italia muta radicalmente: nasce la prima forma di giornalismo politico e di conseguenza vengono fondate numerose testate indifferenti al controllo delle autorità francesi.
Purtroppo, subito dopo il triennio rivoluzionario, i rapporti tra stampa e occupanti francesi divennero sempre più conflittuali, e così alcuni giornali vennero soppressi e la maggioranza di quelli più noti alla fine cedette e si adeguò.
Nel XIX secolo, lo Statuto Albertino, però, rappresentò una notevole svolta per tutti i giornalisti, perché stabiliva un controllo amministrativo solo per quelli che erano considerati “abusi”, non più quindi una censura preventiva.
Nei primi anni del 900, più precisamente nel 1908, venne fondata la Federazione della Stampa, il cui scopo era ottenere una maggiore indipendenza politica ed economica per l’intera categoria dei giornalisti, ma la storia, malauguratamente, non fu di parte.
Con l’arrivo della prima guerra mondiale, infatti, i quotidiani si dividono in neutralisti, rappresentati dalla stampa cattolica, e interventisti, tra cui spiccava la figura di Benito Mussolini, il quale, finanziato da industriali francesi e italiani, fonda “Il Popolo d’Italia” proprio con lo scopo di influenzare maggiormente l’opinione pubblica.
Nel 1925 sarà lui a istituire l’albo professionale dei giornalisti, a rendere l’iscrizione obbligatoria, affinché possa essere utilizzata come metodo di accertamento e selezione, e a far riconoscere dal prefetto il direttore responsabile di ogni giornale.
Ovviamente la conseguenza primaria, in un clima di così forte controllo e repressione, è stata la diffusione della stampa clandestina: proprio in questi anni Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini e i Fratelli Rosselli fondano il primo periodico italiano antifascista “Non mollare”.
Inutile specificare che anche la prima scuola di giornalismo aveva lo scopo di inquadrare ogni studente negli ideali del fascismo, fino ad arrivare però al 1943, quando finalmente la libertà di stampa sembra essere ripristinata e vengono soppresse tutte le testate fasciste.
L’informazione oggi
Il rapporto tra giornalismo e politica è sempre esistito come abbiamo potuto rilevare dalla storia che ha caratterizzato il nostro paese a partire dal 1600, ma non è mai stato così ingerente, invadente o come hanno definito alcuni “incestuoso”.
Ecco, questo perché i due mondi si influenzano reciprocamente, quando in realtà uno dovrebbe vigilare sull’altro.
Perché il giornalista non è soltanto quella figura professionale che si occupa della stesura di articoli per un giornale o in generale per un servizio di informazione.
Il giornalista dovrebbe essere portatore di verità scomode, spesso pesanti da digerire e difficili da trattare.
È colui che, come direbbe Horacio Verbitsky, nella ricerca del vero, dovrebbe essere persino “molesto”.
Non solo nelle occasioni più conflittuali e problematiche, bensì a partire anche dalla trattazione dei casi di cronaca apparentemente più banali.
Eppure non è così, e quindi anche in un paese democratico come il nostro, l’informazione è ormai a repentaglio.
La dimostrazione di questa degenerazione?
Non si tratta solo di editori politicizzanti, il cui solo esserne consapevoli e abituati ci dovrebbe far riflettere.
Si fa riferimento anche a talune tecniche giornalistiche come i “retroscena” e a quelle che sono state definite “porte girevoli”.
Il retroscena è una tecnica giornalista attraverso la quale si racconta il lato della storia che non si conosce, o comunque la versione che non è stata ancora riportata.
Non è la tecnica ad essere scorretta di per sé, bensì l’abuso che se ne fa ed è facile intuire per quali scopi.
Con l’espressione “porte girevoli”, invece, si vuole suggerire l’immagine dei ruoli del giornalista e del politico che si sovrappongono, si sostituiscono e alternano fino a confondere e perdere completamente i confini dell’uno e dell’altro.
Andando oltre i casi più datati, si possono citare numerosi ex direttori di giornali che successivamente hanno ricoperto cariche politiche, non solo alla Camera e al Senato: Emilio Carelli, ex conduttore del Tg5; Tommaso Cerno, direttore de L’Espresso; Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo, aveva lavorato in precedenza per Il Giornale; e infine, potremmo citare anche Giorgia Meloni e Matteo Salvini, i quali prima di intraprendere l’esperienza politica, erano entrambi giornalisti.
C’è anche chi, d’altra parte, compie il percorso opposto: Lilli Gruber, per esempio, dal 2004 al 2008 ha ricoperto il ruolo di parlamentare europea e oggi conduce la trasmissione “Otto e mezzo”.
Conclusioni
L’ Art. 10 della nostra Costituzione sancisce la libertà di espressione e d’informazione senza possibilità di ingerenza da parte delle autorità pubbliche. Ma ad oggi, piuttosto che soffermarsi sull’influenza che la politica esercita sull’informazione pubblica, che non è comunque da sottovalutare, dovremmo chiederci se forse è il caso di riflettere sulla possibilità che questa intromissione sia accettata e ricercata dagli stessi giornalisti.
Siamo in un’epoca in cui solo il 29% degli italiani crede nelle notizie diffuse da giornali e tv, proprio a causa del sospetto che i media raccontino solo una versione della storia, solo una parte della verità.
Con questa riflessione non si vuole negare il credo politico dei giornalisti in quanto individui, quanto piuttosto ricordare quello che dovrebbe essere il loro ruolo, una volta compiuta la scelta professionale: difendere e alimentare il diritto all’informazione per tutti, con il dovere di diligenza e oggettività.
Solo così il mestiere di giornalista, in un’epoca in cui siamo tutti autori, potrà sopravvivere. Solo così la nostra democrazia potrà salvarsi: con un’informazione libera.
Fonte dati: TPI
Autore: Francesca Conte – JEBS Consulting
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